Letteratura La Maccaronea.

Cartina dell'Italia

CULTURA - LETTERATURA - LA "MACCARONEA"

IL FOLENGO E LA SUA VITA BIZZARRA

...1

Fra tanti capi ameni ci era Girolamo, che per le sue eccentricità si fe' mandar via da Bologna, e non fu voluto ricevere in casa il padre(1), sicché finì frate in Brescia ribattezzatosi Teofilo. Ma ne fuggì con una donna, e, ricomparso nel secolo, per campare la vita si diè a scriver romanzi, sotto il nome di quel tal Cocaio, postogli a' fianchi, Cassandra inascoltata, dal padre, e di Merlino, il celebre mago de' romanzi di cavalleria. Ebbe fama, ma quattrini pochi; e Merlino, il pitocco, come si chiama nel suo Orlandino, stanco della vita errante, si rifece frate, scrisse poesie sacre, e morì pentito e confesso e da buon cristiano, come il Boccaccio. Fu di quegli uomini che si chiamano scapestrati, e dal principio perdono l'orizzonte, e fanno una vita sbagliata. Messosi fuori di ogni regola e convenienza sociale, in una vita equivoca, non laico e non frate, tra miseria e dispregio, si abbrutì, divenne cinico, sfrontato e volgare. Trattò la società come nemica, e le sputò sul viso, prorompendo in una risata pregna di bile. Ridere a spese delle forme religiose e cavalleresche era moda; egli ci mise intenzione e passione. Ciò che negli altri era colorito, in lui fu l'obbiettivo, lo scopo. E a questa intenzione furono armi una fantasia originale, una immaginazione ricca e una vena comica tra il buffonesco e il satirico.

L'"ORLANDINO"

La sua prima concezione, come ci assicura quel tal Cocaio, fu l'Orlandino, o le gesta del piccolo Orlando, poema in ottava rima e in otto capitoli. Lo chiama la prima deca autentica di Turpino, stimando apocrife tutte le storie in voga, eccetto quelle del Boiardo, del Pulci, dell'Ariosto e del Cieco di Ferrara: Apocrife son tutte, e le riprovo Come nemiche d'ogni veritate; Boiardo, l'Ariosto, Pulci e 'l Cieco Autenticati sono; ed io con seco. Ma Orlando nasce al settimo capitolo, e, quando comincia appena a vivere, finisce il poema. Forse il poco successo gli tolse la voglia di andare innanzi. La forma è orrida, irta di barbarismi e solecismi, e confessa egli medesimo che i lettori vi trovavano Oscuri sensi ed affettate rime. - Ma che colpa ci ho io? - soggiunge Merlino: non tutti Sannazari ed Ariosti, Non tutti son Boiardi ed altri eletti, Li cui sonori accenti fur composti De l'alma Clio negli ederati tetti, Tetti sì larghi a lor, a noi sì angosti; E rari son purtroppo gli entro accetti! Ho riportato questi versi come esempio. Era di scarsa coltura, e lo chiamavano per istrazio il grammatico, Che tanto è dire quanto son puro asino. e, poco studioso della lingua, chiamava chiacchieroni i toscani, che accusavano lui di lombardismi e latinismi: Tu mi dirai, lettor, ch'io son lombardo E più sboccato assai d'un bergamasco: Grosso nel proferir, nel scriver tardo, Però dal tosco facilmente l' casco. Una lingua cruda, che è una miscela di voci latine, lombarde, italiane e paesane, senza gusto e armonia; uno stile stecchito, asciutto, lordo e plebeo, spiegano la fredda accoglienza di un pubblico così colto e artistico. Il concetto è la difesa delle inclinazioni naturali contro le restrizioni religiose, con pitture satiriche de' chierici, qui praedicant ieiunim ventre pleno. Vi penetrano alcune idee della Riforma, come nella preghiera di Berta, non a' santi, dic'ella, ma a Dio, e mescolate con invettive e buffonerie a spese de' frati o "incappucciati" con bile e stizza di frate sfratato. Il che non procede da fede intellettuale e non da indignazione di animo elevato, ma da scioltezza di costumi e di coscienza. Veggasi ad esempio il ritratto di Griffarrosto, allusione al priore del suo convento: ritratto osceno e bilioso, tra il ringhio del cane e gli attucci senza vergogna della scimmia. La sua caricatura de' tornei cavallereschi, concepita con brio, eseguita in forma stentata e grossolana, rivela una fantasia originale, a cui mancano gl'istrumenti. Riuscitogli male l'italiano, tentò un poema in latino, e smise subito. In ultimo trovò il suo istrumento: una lingua senza grammatiche e senza dizionari, e di cui nessuno aveva a chiedergli conto; una lingua tutta sua, trasformabile a sua posta, secondo il bisogno del suo orecchio e della sua immaginazione: dico la lingua maccaronica. Il latino era allora lingua viva nelle classi colte e diffusa. Sannazaro, Vida, Fracastoro, Flaminio erano nomi sonori più che il Berni o l'Ariosto o il Boiardo. Se in Firenze l'italiano avea vinta la prova, nelle altre parti d'Italia il latino avea ancora la preminenza. In quella dissoluzione generale di credenze, d'idee, di forme, la buffoneria penetrò anche nelle due lingue, e ne uscì una terza lingua, innesto delle due, possibile solo in Italia, dove esse erano lingue note e affini. Avemmo adunque il pedantesco, un latino italianizzato, e il maccaronico, un italiano latinizzato, con mal definiti confini, sì che talora il pedantesco entra nel maccaronico e il maccaronico entra nel pedantesco. Tentativi infelici e dimenticati, quando nel 1521, cinque anni dopo l'Orlando furioso, uscì in luce la Maccaronea di Merlin Cocaio, e fece tale impressione che in quattro anni se ne fecero sei edizioni.

LA "MACCARONEA": SUO CONTENUTO

La Maccaronea nel principio è l'Orlandino, mutati i nomi. A quel modo che Milone rapisce Berta e poi la lascia, e Berta gli partorisce Orlando; Guido, discendente di Rinaldo, rapisce Baldovina, figlia di Carlomagno, e fugge con lei in Italia, accolti ospitalmente da un contadino di Cipada, patria appunto del nostro Merlino Guido lascia Baldovina, cercando avventure, ed ella muore dopo di aver partorito Baldo. Fin qui l'Orlandino e la Maccaronea vanno insieme: ma qui l'Orlandino finisce subito, e la trama è ripigliata e continuata nella Maccaronea. Baldo, come Orlandino, ha molta forza e coraggio, e si gitta a imprese arrischiate. Ha parecchi compagni, tra' quali Fracasso, che ricorda Morgante da cui discende, e Cingar, che ricorda Margutte. Dicono che sotto questi nomi si celino gl'irrequieti studenti di Bologna capitanati da quel Francesco Mantovano, che sarebbe Baldo. Fatto è che, date e ricevute molte busse, Baldo è messo in prigione. Cingar, vestito da frate lo libera. Eccoli tutti per terra e per mare cavalieri erranti, e compiono audaci imprese. Baldo distrugge corsari, stermina le fate, ritrova Guido suo padre fatto romito, che gli predice grandi destini; va in Africa, scopre le foci del Nilo, scende nell'inferno. Giunto co' suoi in quella parte dell'inferno dove ha sede la menzogna e la ciarlataneria e dove stanno i negromanti, gli astrologi e i poeti, Merlino trova colà il suo posto e pianta i suoi personaggi e finisce il racconto. Abbandonarsi alla sua sbrigliata immaginazione e accumulare avventure è a prima vista lo scopo di Merlino, come di tutt'i romanzieri di quel tempo. Anzi di avventure ce n'è troppe, e fra tanti intrighi l'autore pare talora intricato e stanco. Ti senti sbalzato altrove, prima che abbi potuto ben digerire il cibo messoti innanzi. Molte avventure sono reminiscenze classiche e cavalleresche, ma rifatte e trasformate in modo originale; e il tutt'insieme è originalissimo. Cominciano con Carlomagno e i paladini, ma dopo alcuni libri o canti ci troviamo in Cipada, con l'immagmazione errante fra Mantova, Venezia, Bologna, e con innanzi l'Italia con la sua scorza da medio evo penetrata da uno spirito cinico e dissolvente. Le forme sono epiche, ma caricate in modo che si scopre l'ironia. La caricatura non è un semplice sfogo d'immaginazione comica e buffonesca, come le avventure non sono un semplice stimolo di curiosità: ci è una intenzione che penetra in quei fatti e in quelle forme e se li assoggetta, ci è la parodia. Baldo è l'ultimo di quella serie di cavalieri erranti, che comincia con Aiace, Achille, Teseo, continua con Bruto, Pompeo e gli altri eroi celebrati da Livio e Sallustio, e va a finire in Orlando e Rinaldo, da cui discende Baldo. La sua missione è di purgare la terra da' mostri, dagli assassini e dalle streghe. La cavalleria è l'istrumento divino contro Lucifero. Baldo vince i corsari, atterra i mostri, uccide le streghe e debella l'inferno. Tutto questo è raccontato con un suono di tromba così rumorosa, con un accento epico cosi caricato, che si ride di buona voglia a spese di Baldo, di Fracasso, di Cingar e degli altri cavalieri. Ma in quest'allegra parodia penetra un'intenzione ancora più profonda: la satira delle opinioni, delle credenze, delle istituzioni, de' costumi, delle forme religiose e sociali. Il medio evo ne' suoi diversi aspetti è in fuga, frustato a sangue dal terribile frate, rifatto laico. Perchè infine i mostri, le streghe e l'inferno non sono altro che forme religiose e sociali: i vizi, le lascivie e i pregiudizi popolari. E come tutta questa dissoluzione non nasce da nuova fede o da nuova coscienza, ma da compiuta privazione di coscienza e di fede, la cavalleria, che in nome della giustizia e della virtù debella l'inferno, è essa medesima una parodia; e l'impressione ultima è una risata sopra tutti e sopra tutto. Qualche sforzo di un'aspirazione più seria ci è: Leonardo che muore per mantenere intatta la sua verginità, è una bella immagine allegorica perduta fra tante caricature. Hai una dissoluzione universale di tutte le idee e di tutte le credenze nella sua forma più cinica. Lì dentro ci è la società italiana colta dal vero nella sua ultima espressione: coltura e arte assisa sulle rovine del medio evo, beffarda e vuota.

LA LINGUA

La lingua stessa è una parodia del latino e dell'italiano, che si beffano a vicenda. Come i maccheroni vogliono essere ben conditi di cacio e di butirro, cosi la lingua maccaronica vuol essere ben mescolata. Spesso vi apparisce per terzo anche il dialetto locale, e si fa un intingolo saporitissimo. La lingua è in se stessa comica, perché quel grave latino epico che intoppa tutt'a un tratto in una parola italiana stranamente latinizzata e talora tolta dal vernacolo, produce il riso. La parodia, che è nelle cose, scende nella lingua, la quale sembra un eroe con la maschera di Pulcinella, un Virgilio carnascialesco. Alione astigiano e qualche altro avevano già dato esempio di questa lingua recata a perfezione da Merlino. Egli ne sa tutt'i segreti, e la maneggia con un'audacia da padrone, con un tale sentimento di armonia, che par l'abbia già bella e formata nell'orecchio. Come saggio cito alcuni brani della sua invocazione alla musa maccaronica: Sed prius altorium uestrum chiamare bisognat, O macaronaeam Musae quae funditis artem. Non mihi Melpomene, mihi non menchiona Thalia, Non Phoebus grattans chitarrinum carmina dictent... Pancificae tantum Musae doctaeque sorellae, Gosa, Comina, Striax, Mafelinaque, Togna, Pedrala, Imboccare suum veniant macarone poetam. Ecco in qual modo descrive il Parnaso di queste Muse plebee: Credite, quod giuro, neque solam dire bosiam Possem per quantos abscondit terra tesoros: Illic ad bassum currunt cava flumina brodae, Quae lagum suppae generant, pelagumque guacetti. Hic de materia tortarum mille videntur Ire redire rates... Sunt ibi costerae freschi tenerique botiri, In quibus ad nubes fumant caldaria centum, Plena casoncellis, macaronibus, atque foiadis. Ipsae habitant nymphae super alti montis aguzzum, Formaiunr que tridant gratarolibus usque foratis.

LO STILE

E non è meno originale il suo stile. Della nuova letteratura i grandi stilisti sono il Boccaccio, il Poliziano, l'Ariosto. Costoro narrando fanno quadri, ciò che costituisce il periodo. Ti offrono le cose dipinte, sono coloristi: Merlino dipinge le cose con altre cose; i suoi colori non sono concetti o immagini, sono fatti. Ha poche reminiscenze classiche: tra lui e la natura non ci è nulla di mezzo. La sua immaginazione non rimane nella vaga generalità delle cose, ma scende nel più minuto della realtà e ne cava novità di paragoni e di colori. I fatti più assurdi e fantastici sono narrati coi più precisi particolari, ed hanno l'evidenza della storia, e ti rivelano un raro talento di osservazioni dell'uomo e della natura, non nelle loro linee generali solamente, ma nelle singole e locali forme della loro esistenza. Veggasi la descrizione della caverna di Eolo e della tempesta, e le disperazioni di Cingar: Solus ibi Cingar cantone tremabat in uno, Atque, morire timens, cagarellam sentit abassum. Undique mors urget, mors undique cruda menazzat. Infinita facit cunctis vota ille beatis, Jurat, quod cancar veniata sibi, velle per omnem Pergere descalzus mundum, saccove dobatus, sum, Vult in Agrignano sanctum trovare Danesum, Qui nunc vivit adhuc vastae sub fornice rupis, Fertque oculi cilios distesos usque genocchios. Ad zocolos ibit, quos olim Ascensa ferebat, Quos in Taprobana gens portugalla catavit; Hisque decem faciet per frates dicere messas. His quoque candelam tam grandem, tamque pesentam Vul offerre simul, quam grandis quamque pesentus Est arbor navis, prigolo si scampet ab isto. Se stessum accusat multas robasse botegas, Sgardinasse casas et sgalinasse polaros. At si de tanto travaio vadat adessum Liber speditus, vult esse Macharius alter, Alter eremita Paulus, spondetque Sepulchri Post visitamentum, vitam menare tapinam. Talia dum Cingar trepido sub pectore pensat, Et ruptae sublimis aquae montagna ruinat, Quae superans altam gabian strepitosa trapassat, Nec pocas secum portavit in aequora gentes. La stessa ricchezza di particolari trovi nella descrizione de' venti e nelle vicende della tempesta. Ci hai il carattere dello stile di Merlino: un realismo animato da una immaginazione impressionabile e da un umorismo inestinguibile. Non ha tutto la stessa perfezione: ci è di molta ciarpa, la facilità è talora negligenza; desideri l'ultima mano, desideri la serietà artistica dell'Ariosto. Questo realismo rapido, nutrito di fatti, sobrio di colori, fa di Merlino lo scrittore più vicino alla maniera di Dante, salvo che Dante spesso ti fa degli schizzi, ed egli disegna e compie tutto il fatto. Il suo continuatore e imitatore è fuori dell'Italia: è Rabelais, che ha la stessa maniera. In Italia prevalse la rettorica, la cui prima regola è l'orrore del particolare e la vaga generalità. Merlino al contrario aborre le perifrasi, i concetti, le astrazioni e quel colorire a vuoto per la via di figure e d'immagini, e non pare che lavori con la riflessione e con l'immaginazione, ma che stia lì tutto attirato in mezzo a un mondo che si muove, guardato e parodiato ne' suoi minimi movimenti. Baldovina e Guido giungono affamati in casa di Berta, e cucinano essi medesimi il pasto. Al poeta non fugge nulla: i cibi, il modo di apparecchiarli, il desco, l'affaccendarsi di Berta, la fisonomia e gli atti de' due suoi ospiti: e ne nasce una scena di famiglia piena di allegria comica, il cui effetto è tutto nei particolari. Il piccolo Baldo va a scuola, e in luogo del Donato studia romanzi. Hai innanzi la scuola di quel tempo, i libri alla moda, i costumi de' maestri e degli scolari: ciascun particolare con la sua fisonomia: Baldovina tamen cartam comprarat, et illam Letterarum tolam, supra quam disceret a, b. Unde scholam Baldus nisi non spontaneus ibat. Nam quis erat tanti seu mater, sive pedantus, Qui tam terribilem posset sforzare putinum? Ipse tribus sic sic profectum fecerat annis, Ut quoscumque libros legeret, nostrique Maroni. Terribiles guerras fertur recitasse magistro. At mox Orlandi nasare volumina coepit. Non deponentum vacat ultra ediscere normas, Non speties, numeros, non casus atque figuras; Non Doctrinalis versamina tradere menti, Non hinc, non illinc, non hoc, non illoc et altras Mille pedantorum baias, totidemque fusaras. Fecit de cuius Donati, deque Perotto Scartozzos ac sub prunis salcizza cosivit. Orlandi tantum gradant, et gesta Rinaldi, Namque animum guerris faciebat talibus altum, Legerat Ancroiam, Tribisondam, facta Danesi, Antonnaeque Bovum, Antiforra, Realia Franzae, Inna moramentum Carlonis, et Asperamontem, Spagnam, Altobellum, Morgantis bella gigantis, Meschinique provas, et qui Caualerius Orsae Dicitur, et nulla cecinit qui laude Leandram. Vidit ut Angelicam sapiens Orlandus amavit Utque caminavit nudo cum corpore mattus, Utque retro mortam tirabat ubique cavallam, Utque asinum legnis caricatum calce ferivit, Illeque per coelum veluti cornacchia volavit. Baldus in his factis nimium stigatur ad arma, Sed tantum quod sit picolettus corpore tristat. E' una scena di quel tempo, ispirata a Merlino dalla sua vita studentesca di Ferrara e Bologna, quando Cocaio, il suo pedagogo, gli metteva in mano Donato e il Porretto, ed egli ne faceva scartozzos, e leggeva romanzi, e sopra tutti l'Orlando furioso. Non c'è una sola generalità: tutto è cose, e ciascuna cosa è animata, come un uomo ha la sua fisonomia e il suo movimento, determinato da forze interiori. Non solo vedi quello che fa Baldo, ma quello che pensa e sente; perchè la parola, se nel suo senso letterale esprime un'azione, con la sua aria maccaronica e la sua giacitura e la sua armonia te ne dà il sentimento, come è quel nasarat, e quel volavit, e quel picolettus, e quell'hinc, illinc, hoc, illoc, et altras mille pedantorum baias. La parte seria del racconto dovrebb'esser la cavalleria perché essa è che fa la guerra all'inferno, cioè alla malvagità e al vizio. Ma la serietà è apparente, e il fondo è una parodia scoperta, il cui eroe più simpatico è il gigante Fracasso, parodia di quella forza oltreumana che si attribuiva a' cavalieri erranti (2). Dico parodia scoperta, se guardiamo alla conclusione ingegnosissima; perché, giunti i cavalieri nella regione infernale delle menzogne poetiche, Merlino te li pianta, e si ferma colà come nella sua patria. Questa patria de' poeti, de' cantanti, degli astrologi, de' negromanti, di tutti quelli Qui fiungunt, cantant, dovinant, somnia genti, Complevere libros follis vanisque novellis: è una conchiglia, o piuttosto una immensa zucca, secca e vuota, mangiabilis, quando tenerina fuit, dove tremila barbieri strappano i denti ai condannati. E Merlino esclama: Zucca mihi patria est: opus est hic perdere dentes, Tot, quot in immenso posvit mendacia libro. E tronca il racconto, e dice addio a Baldo: Balde, vale studio alterius te denique lasso. Il poeta conchiude beffandosi di Baldo e della sua arte e di se stesso, che ha composto un vero mostro oraziano, fuori di tutte le regole, perduti i remi, mescolati l'austro co' fiori e i cignali col mare: Tange peroptatum, navis stracchissima, portum, Tange, quod amisi longinqua per aequora remos. He heu, quid volui, misero mihi, perditus Austrum Floribus, et liquidis immisi fontibus apros. E' il comico portato all'estremo dell'umore. La caricatura del Boccaccio, la buffoneria del Pulci, l'ironia dell'Ariosto è qui l'allegro e capriccioso umore di una negazione universale e scoperta, nella forma più cinica. In questa negazione universale la satira penetra dappertutto, e attinge la società, come il medio evo l'aveva costituita, in tutte le sue forme, religiose, politiche, morali, intellettuali. La scolastica è messa alla berlina: san Tommaso e Scoto e Alberto stanno come visionari accanto agli astrologi e a' negromanti. Megera fa un terribile ritratto di tutt'i disordini della Chiesa e dei papi, e Aletto fulmina ugualmente guelfi e ghibellini, i seguaci della Francia e i seguaci dell'impero. I monaci sono il principale bersaglio di questi strali poetici. Una delle pitture più comiche è quel birichino di Cingar, vestito da francescano per liberare Baldo dal carcere: Iam non est Cingar, quia sanctos portat amictus, Sub tunicis latitant heu sanctis saepe ribaldi! Notabile è la satira de' frati nell'ottavo libro: Postquam giocarunt nummos borsamque vodarunt Postquam pane caret cophinus, vinoque barillus, In frates properant, datur his extemplo capuzzus. La moltiplicità de' conventi gli fa temere che un bel dì rimanga la gente cristiana senza soldati e senza contadini. Scherza su' motti del Vangelo. Fa una parodia della confessione. I cavalieri erranti giungono alla porta dell'inferno, dov'è parodiata la celebre scritta di Dante: Regia Luciferi dicor, bandita tenetur Chors hic, intrando patet, ast uscendo seratur. Ma non possono domare l'inferno, se prima non si confessano, e il confessore è Merlino stesso, il poeta: Nomine Merlinus dicor, de sanguine Mantus, Est mihi cognomen Coccaius maccaronensis. Quale confessione i cavalieri possano fare a Merlino, soprattutto Cingar, il lettore s'immagini. E' una farsa. Tutta l'opera è penetrata da uno spirito capriccioso e beffardo, che fa di quel mondo, in mezzo a cui si trova il suo aperto trastullo, e gli dà forme carnascialesche.

LA "MOSCHEIDE" E LA "ZANITONELLA"

Anche la Moscheide di Merlino è una caricatura o un travestimento carnevalesco della cavalleria in uno stile più corretto e uguale. La guerra finisce con la sconfitta compiuta delle mosche, descritta co' tratti, da lui caricati, dell'Ariosto e di altri poeti cavallereschi. Eccone alcuni brani verso la fine: Numquam facta fuit tam cruda baruffola mundo. Nil nisi per terram membra taiata micant. Grandes mortorum vadunt ad sydera montes Sydera, quae multo rossa cruore colant Pulmones, milzae, lardi, ventralia, nemboi Saturni ad sphaeram foeda per astra volant. Una corada Iovis mostazzum colsit, et uno Sol ibi ventrazo spinctus ab axe fuit. Dumque dei coenant, puero Ganimede ministro, Multa super mensas ossa taiata cadunt; Nunc brazzus Ragni, nunc gamba cruenta Pedocchi, Nunc cor Moschini, nunc pulicina manus. ... Trucidatis ducibus, Moschaea ruinat Tota, nec una quidem vivere Mosca potest. Formicae, Pulices, Ragni - Victoria! - clamant. Trombettae tararan jam frisolando sonant. Il Rodomonte delle Mosche è Siccaborone, sul quale da una torre gittano un sasso enorme. Qui super elmettum schizzavit Siccaboronem, fugit. Vitaque cum gemitu sub Phlegethonta La Zanitonella o gli amori di Zanina e Tonello è un suo poemetto bucolico in caricatura, dove si fa strazio delle immagini e de' sentimenti petrarcheschi e idillici. Il Petrarca narra che Amore colpì lui improvviso e disarmato. Il medesimo avviene a Tonello: Solus solettus stabam colegatus in umbra, Pascebanque meas virda per arva capras. Nulla travaiabant vodam pensiria mentem, Nullaque cogebat cura gratare caput. Cum mihi bolzoniger cor, oyme, Cupido forasti, Nec tuus in fallum dardus alhora dedit. More valenthominis schenam deretro feristi: O bellas procas quas, traditore, facis! Guardando un po' addentro in questa caricatura universale del mondo, si vedono qua e là spuntare alcuni lineamenti confusi di un mondo nuovo. Ci si sente lo spirito della Riforma, il dolore di un'Italia scissa tra Impero e Francia, essa che, unita, aveva imperato sull'universo, l'indignazione di tanta licenza e corruzione dei costumi nel secolo degl'ipocriti e delle cortigiane, un disprezzo delle fantasticherie teologiche, scolastiche e astrologiche, un sentimento del reale e dell'umano. Ma sono velleità, immagini confuse e volubili, che si affacciano appena e non hanno presa sul suo spirito vagabondo e sulla sua capricciosa immaginazione.

NOTE

(1) In casa del padre. IL CIECO DI FERRARA (Francesco Bello) visse alla corte dei Gonzaga nel Sec. XV. Morì nel 1505. (2) Ecco un esempio. Fracasso di un salto passa il fiume dell'inferno, alla barba di Caronte. Tunc Fracassus ibi largum saltare canalem Praeparat, et spudans manibus se retro retirat, Discorsamque piat vel tres vel quinque cavezzas, Inde movens passus longones, inde galoppans, Inde cito corsum, de ripa saltat in altram. Quo saltu intornum graviter campagna tremavit. Terribilemque omnes balzum stupuere barones. Baldus mandat ei, tota cum voce cridando, Ut voiat barbam nautae streppare pilatim, Rumpere cervellum ac totos corporis ossos.

C p i l e f w

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15 Mar. 2025 8:41:19 am

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